lunedì 5 dicembre 2016

Una Chiacchierata con ..... Francesco "Frank" Antonelli

Quest’anno abbiamo avuto tante novità, dalla metodologia per brassare le nostre birre, alla creazione di un nuovo sito, alla nascita del canale video. Ma una cosa non è cambiata, i nostri incontri, le nostre chiacchierate con gli Amici HB.
Ad inizio stagione abbiamo avuto il piacere di incontrare uno dei maggiori imprenditori nell’ambito della birra artigianale italiana: Eliano Zanier, fondatore e proprietario del marchio Mr. Malt.
Subito dopo ci è venuto a trovare l’Amico del Forum di AreaBirra.it Daniele “Ciarly” Ciarlantini: una chiacchierata semplice, come si fa al pub.
Abbiamo proseguito con Giorgio Salgoni, proprietario del BeerShop “DueDiPiccole” di Loano (SV): una chiacchierata che ha toccato soprattutto il mondo commerciale delle birre artigianali.
È ora giunto il momento di incontrare un’altra anima del panorama della birra Artigianale Italiana. Vi presentiamo oggi un homebrewer che punta molto sulla comunicazione e sulla divulgazione: con immenso piacere, cari lettori, diamo il benvenuto a Francesco “Frank” Antonelli, fondatore del blog “Brewing Bad” ma non solo…

Ingegnere Elettronico di formazione, negli ultimi anni ha lavorato sempre nel marketing. La sua passione per la birra si è consolidata in Irlanda, dove nel 2003 ha trascorso un anno lavorando come ricercatore presso il Trinity College di Dublino. Ha viaggiato molto, soprattutto in Irlanda e Scozia. Homebrewer dal 2013, ha come riferimento birrario, ovviamente, l’Irlanda, ma più in generale i paesi anglosassoni. Tra i fondatori e oggi unico autore di Brewing Bad, qualche mese fa ha pubblicato anche una raccolta degli articoli del blog. 
Insegna nei corsi di degustazione organizzati da Fermento Birra e scrive su Fermento Magazine. Cura inoltre la rubrica “Il Fermentatore nell’armadio” sul sito “Cronache di Birra”. 
Ha frequentato il corso da degustatore presso l’Associazione Degustatori di Birra nel 2014 e ora si sta preparando per sostenere l’esame da giudice BJCP, previsto per febbraio 2017. 
Insieme agli altri ragazzi di Brewing Bad, ha vinto l’edizione 2014 del Concorso per homebrewers Brassare Romano. Oggi è parte attiva nell’organizzazione del concorso. Per due anni ha partecipato alla trasmissione settimanale Beerock – Ronzio di un’ape idrofoba di RyarWebRadio (sul blog sono disponibili le puntate in podcast: http://brewingbad.com/brewing-bad-in-onda-su-ryarwebradio/ ).
È nato a Roma il 6 febbraio 1977. È sposato e ha una bimba piccola di 10 mesi di nome Emma. Prima di iniziare a produrre birra in casa, dedicava molto del suo tempo libero all’altra sua passione, la musica. 
Ha suonato come batterista in diversi gruppi musicali (tra cui la Alchemica Superstereo, link YouTube: https://www.youtube.com/watch?v=ji8Qon6tdXY ).Suona anche la chitarra e ama molto viaggiare.
Che dire di più, diciamo uno dei maggiori comunicatori nel panorama degli homebrewers italiani e non solo.

Ciao Francesco o Ti devo chiamare Frank?
F: credo che nemmeno mia mamma mi chiami mai Francesco. Bel nome, per carità, ma è troppo lungo. Mia nonna mi chiamava sempre Franco, nomignolo che non mi piaceva granché. Poi mi ci sono abituato, l’ho inglesizzato e alla fine è stato adottato come nome da battaglia.

Quando ho deciso di farmi una chiacchierata con Te sono stato colto dall’imbarazzo nella ricerca degli argomentazioni, dammi una mano presentati e racconta brevemente la Tua storia birraria.
F: Hai praticamente già raccontato tutto nel cappello introduttivo. La mia storia birraria parte, come quella di molti altri della mia generazione, con la birra industriale. Ero un appassionato di pub irlandesi ancor prima di aver visitato l’Irlanda per la prima volta, nel 2000. Quelli che si trovavano a Roma rappresentavano il classico franchise della Guinness con i panini che portavano il nome delle città irlandesi (Dingle, Kilkenny, Galway, etc…), l’arredamento rigorosamente in legno scuro e le spine di Harp, Kilkenny e Guinness. Nonostante ciò, mi piacevano tanto (in particolare quelli nel centro di Roma, frequentati da stranieri e spesso gestiti da stranieri). Poi sono stato finalmente in Irlanda, dove la mia passione per questa terra è diventata quasi viscerale. Negli anni successivi l’ho girata in lungo e in largo, spostandomi anche in Scozia, terra che amo tantissimo. Da lì la mia passione per le stout, le scotch ale, le bitter e le birre inglesi in generale. Quando andavo ancora all’università, ho fondato insieme ad alcuni amici il portale antidoto.org (ora non esiste più) che raccontava i pub della capitale. Per 5 anni non abbiamo fatto altro che scrivere recensioni girando per pub, quando ancora eravamo giovani e ce lo potevamo permettere. Abbiamo assistito alla nascita del movimento artigianale, organizzando i primi eventi insieme a Manuele Colonna e ad altri gestori di pub romani. Poi, a un certo punto, ognuno è andato per la sua strada e il sito è rimasto immobile per anni, prima di sparire del tutto. La passione per l’homebrewing è venuta molto dopo, quando nel 2012 un amico mi ha convinto a provare. Da quel momento, non ho più smesso.

Iniziamo con qualche domanda generica.
Qual è la tecnica che maggiormente hai usato e usi per produrre le Tue birre?
F: Ho iniziato con il metodo più difficile: la prima cotta l’ho fatta in allgrain con fly sparge. È stata un’odissea di 10 ore che non dimenticherò mai. Pian piano ho cercato di semplificare, anche perché nel frattempo mi sono sposato, ho cambiato casa e ho avuto una bambina. Spazi e i tempi si sono ristretti: a quel punto sono passato al BIAB senza mai più tornare indietro.

Quali sono le birre che produci che ti danno le maggiori soddisfazioni?
F: Amando gli stili anglosassoni, le mie produzioni virano spesso su stout, porter e bitter. Ho tentato con le saison, diverse volte, ma non sono ancora riuscito a produrne una che mi soddisfi (forse perché non ci metto lo stesso cuore). Ho invece avuto una buona soddisfazione con la Roight!, una irish stout che produco regolarmente affinando ogni volta (di poco) la ricetta.

Una regola delle chiacchierate che facciamo a cui, di solito, tutti si adeguano. Regala una tua ricetta ai nostri lettori.
F: La ricetta è quella della Roight!, la mia irish stout. Molti si meraviglieranno poiché ho tolto il roasted barley dalla ricetta, ingrediente che è considerato caratterizzante per questo stile. Io personalmente lo trovo caratterizzante quanto altri malti tostati: non riesco a trovare differenze organolettiche significative tra orzo tostato e malto tostato. In questa ricetta ho utilizzato il Carafa senza glumelle (dehusked) al posto del roasted barley, per limitare l’astringenza al minimo. Il risultato mi è piaciuto molto. Chi vuole può sostituire al Carafa il roasted barley, se lo fa sentire più in linea con la tradizione. Un’altra nota: siccome faccio birra in BIAB e non ho problemi di stuck sparge, ho usato una quantità piuttosto alta di fiocchi d’orzo per dare morbidezza al palato. Chi facesse sparge, farebbe forse meglio a scendere di qualche punto percentuale (alzando la quantità di malto pale).

Malti:
• Pale Ale (59%)
• Flaked Barley(31%)
• Chocolate (5%)
• Carafa III Special (5%)

Luppoli (totale IBU: 38)
• East Kent Goldings (unica gettata a 60 minuti)

Mash monostep a 64°C.

Lievito: Wyeast 1084 (Irish Ale)

Fermentazione a 19°C, dopo i primi due giorni salire un grado al giorno fino a 22°C

Carbonazione: 1.9 vol
OG: 1.045
FG: 1.013

Dai tuoi viaggi si evince la tua passione per le birre anglosassoni, quali sono le motivazioni che ti hanno fatto innamorare di quel mondo, cosa ti è rimasto dentro. 
F: Prima che di birra, sono stato un appassionato di pub. Della public house, intesa come luogo di ritrovo, di svago, un vero e proprio rifugio. Al pub mi piace stare con gli amici ma anche da solo, al bancone magari, leggendo un buon libro o scambiando quattro chiacchiere con il publican. È un tipo di atmosfera che difficilmente si riesce a trovare nei locali al di fuori dei paesi anglosassoni. In Irlanda ogni pub è una casa, specialmente quando si esce dalle grandi città e si fa un giro per i piccoli centri. Una pinta di stout accompagnata da un bel fish & chips sul molo di qualche paesino, davanti alla bassa marea, è una sensazione che mi porto dentro sempre. L’abbinamento gastronomico non è dei migliori, ma ci passo volentieri sopra.

Il nostro sito parla principale della tecnica australiana BIAB.
Cosa ne pensi, vorrei che spiegassi ai nostri lettori il Tuo punto di vista su questa tecnica.
F: Come ho già raccontato, ormai faccio birra solo in BIAB. È una tecnica che i tradizionalisti non vedono di buon occhio, come ben sai anche tu. Se ne è discusso tanto, in maniera più o meno superficiale e di parte, quindi non è il caso di ricominciare da capo. Posso dire che ho assaggiato ottime birre fatte in BIAB, alcune delle quali hanno vinto concorsi. I detrattori del BIAB citano spesso mille ragioni per cui la birra prodotta con questo metodo non può arrivare al livello di quella prodotta con il filtraggio classico. Dalla mia esperienza e soprattutto dagli articoli scientifici che ho letto, l’unico vero svantaggio è la stabilità della birra nel tempo: il mosto torbido in bollitura porta inevitabilmente acidi grassi a catena lunga nel fermentatore. Questi rimangono nella birra anche se appare limpida alla vista, dopo un cold crash (in BIAB si possono produrre birre limpidissime). Con il tempo, questi acidi grassi possono avere effetti negativi sulle componenti organolettiche (off-flavours) e sulla stabilità della schiuma. Questa è la principale ragione per cui negli anni i birrifici hanno cercato di migliorare la limpidezza del mosto che arriva in bollitura. Ma io non sono un birrificio, produco 10 litri a volta e finisco le birre al massimo in due mesi. Quelle più alcoliche hanno l’alcool che rallenta l’ossidazione e il decadimento organolettico, quindi incorrono meno in questi problemi e si possono lasciar maturare più a lungo. Per me resta molto più importante poter risparmiare tempo e spazio e quindi fare più cotte, piuttosto che produrre la pilsner perfetta che rimane stabile per 6 mesi sugli scaffali del mio sgabuzzino. Non dico che le birre prodotte in BIAB siano equivalenti, sempre e comunque, a quelle prodotte con il metodo classico. Dico solo che il BIAB è comodo e che nella maggior parte dei casi le differenze nel prodotto finito, se ci sono, sono così sottili da sfuggire anche ai palati più esperti (sempre che vengano fatti dei seri test alla cieca e non della prove da chi è di parte).

Perché in Italia il BIAB ha trovato tanta diffidenza da parte degli addetti ai lavori?
F: Perché non è un metodo tradizionale e viene visto come una scorciatoia. Chi fa BIAB è pigro, svogliato e non ama questo hobby sul serio. Questo perché non abbiamo esponenti del movimento nuovi con menti aperte, ma ci rifacciamo ancora a modelli (e a libri) scritti più di 10 anni fa. Di me hanno detto che faccio birra con la busta dei panni sporchi, senza nemmeno aver mai assaggiato una mia produzione. Ci sta, si scherza, ma è evidente che si creano delle fazioni a prescindere, senza nessun razionale concreto. Solo perché io non faccio tutto quello che ha scritto Bertinotti nel suo libro. Tanto rispetto da parte mia, non si discute, ma il mondo va avanti.

Raccontaci il percorso, se hai programmato le tappe che ti ha portato prima a condividere le tue esperienze birrarie e poi a diventare uno dei personaggi più importanti del panorama dell’informazione birraria italiana o hai cavalcato l’onda man mano che cresceva?
F: Quando ho iniziato a fare birra con il mio amico Simone, non pensavo nemmeno lontanamente di aprire un blog. Come ti ho detto, avevo gestito in precedenza un sito sui pub e avevo fatto parte dell’ambiente birrario romano, ma non avevo mai fatto birra a casa. Fu Simone che mi propose di raccontare le nostre esperienze su un blog, tanto per avere un diario. Il resto è venuto piano piano: ho cavalcato l’onda, come dici tu. Il mio essere ingegnere mi porta ad avere un approccio analitico e razionale a qualsiasi cosa. Mi sono messo a cercare e ho visto che non c’era molto online su questo tema, in italiano. Quantomeno non c’era nulla di strutturato che parlasse di homebrewing, se non il classico libro di Bertinotti (e il suo sito: fonte molto valida, ma non veniva aggiornato da tempo). C’era un vuoto informativo e ho deciso di lanciarmi. La costanza nell’aggiornamento del blog, l’approccio analitico e la passione per la scrittura hanno fatto il resto. Inoltre, avendo per anni gestito un portale web, il passaggio alla piattaforma wordpress è stato abbastanza indolore.

Quali sono le difficoltà che hai incontrato nell’applicare sul web i tuoi pensieri?
F: L’aspetto più impegnativo è sempre trovare il tempo per scrivere e pubblicare con costanza articoli sul blog, cercando di non trattare i soliti temi triti e ritriti, oppure trattarli nuovamente ma con un tocco personale. Discutibile, a volte, ma almeno non è un copia e incolla da wikipedia.

Nei tuoi innumerevoli viaggi, quali sono le sensazioni che hai fatto tue e poi hai cercato di trasmettere a chi ti segue?
F: Non farsi prendere dalle derive estreme della degustazione. A me piace analizzare una birra, ma solitamente lo faccio a casa. Al pub mi piace guardarmi intorno, leggere, parlare con chi ho davanti. Dei miei viaggi ricordo le nottate nei pub con gli amici a giocare a biliardo insieme agli habitué (molte volte sorseggiando pessime birre industriali). Oggi magari mi risulterebbe più difficile bere certe brodaglie, ma il concetto è che la birra è prima di tutto uno strumento di socializzazione e di scoperta. Almeno per me è sempre stato così.

Il mondo della birra ha cambiato la tua vita?
F: Sicuramente sì. L’ha cambiata dalla prima volta che ho messo piede in un pub. Con questo non voglio dire che sono un alcolizzato, ma che quel tipo di cultura fa parte di me. Quando ho un problema, quando sono giù, alzo il telefono, chiamo un amico e ci facciamo un paio di birre al pub. Anche nei miei viaggi, cerco sempre il piccolo pub di periferia per sedermi al tavolo e osservare le persone del posto. Amo scoprire le culture attraverso la birra (ma anche attraverso il cibo), ed è per questo che prediligo le destinazioni birrarie. Dai tempi di Antidoto, molto del mio tempo libero è sempre ruotato intorno alla birra. Per mia fortuna, ho trovato una compagna di vita che apprezza come me questo meraviglioso mondo (anche perché, se così non fosse stato, non credo saremmo durati molto). Pensa che il nostro viaggio di nozze è stato un giro on the road in Europa con soste birrarie a Bamberga, Colonia e su a nord fino a Brussels (dove abbiamo incontrato il mitico Armand di 3Fontieinen, cenando al ristorante che gestisce suo fratello).

Cosa pensi del panorama dell’informazione birraria italiana articolata attraverso siti blog forum social e canali video?
F: Penso che siamo molto indietro. Moltissimo. Chiaramente esistono eccezioni, ma la maggior parte della comunicazione birraria è maldestra e improvvisata. Chi sa, purtroppo, di solito non scrive molto sul web. Dei mille blog di degustazione che esistono, molti sono raffazzonati e gestiti male. I canali social sono quasi sconosciuti al mondo della birra artigianale italiana, per non parlare dell’homebrewing. Esistono pochissimi blog italiani sull’homebrewing degni di questo nome (si contano sulle dita di una mano). Quasi nessuno fa divulgazione, tutto accade nei forum che sono un mezzo vecchio di almeno 15 anni dove può scrivere chiunque senza nessun filtro se non quello della comunità stessa. La maggior parte dei blog sono diari delle cotte: legittimi, per carità, spesso anche divertenti, ma ben lontani dalla mia idea di comunicazione.

Cosa diresti a chi vorrebbe intraprendere la tua strada? Dai qualche consiglio per iniziare a diventare, passami il termine, un “anchorman birrario”?
F: Anzitutto studiare ma anche fare molta pratica. Non bisogna essere i più bravi homebrewers del mondo per poter divulgare. Io non lo sono affatto, ma credo di avere comunque qualcosa da dire. Metto sempre in piazza i miei errori, le cotte riuscite male, le birre imbevibili. Si impara soprattutto condividendo. È importante cercare di non essere buonisti e accondiscendenti con tutti: l’educazione e l’umiltà vanno sempre al primo posto, ma non siamo tutti amici e non va sempre tutto bene. A qualcuno alla fine starete pure sulle scatole, ma va bene così. Piacere a tutti non si può: chi piace a tutti, di solito non ha molto da dire.

Le collaborazioni con RyarWeb Radio, con Gambero Rosso e l’intervista su la7 hanno imposto il tuo modello di comunicazione a livello nazionale e non solo, cosa pensi che abbia contribuito al tuo successo?
F: L’esperienza su La7 è stata veramente imbarazzante . Mi sono divertito, per carità, ma il servizio trasmesso è stato piuttosto ridicolo. Ci sta, lo immaginavo fin dall’inizio. Alla fine mi sono fatto quattro risate. La collaborazione con il Gambero è stata una delle prime cose “serie” che ho fatto in questo ambito e mi è piaciuta moltissimo. Ho parlato di birra artigianale agli studenti del corso allievi cuochi, in un contesto in cui i marchi industriali la fanno da padrone. Grande stima per chi me lo ha lasciato fare. Uno dei ragazzi di quel corso ora lavora da Eastside, uno dei più promettenti birrifici italiani. L’esperienza a Ryar con Giulia Lanciotti e il maestro Francesco è nata per caso ma è risultata veramente divertente: è stata dura andare in onda ogni martedì per due anni di fila, considerando tutto il materiale che va preparato prima. A conti fatti la considero una grande esperienza: parlare alla radio, anche se una radio web, è stato per me qualcosa di nuovo che mi ha insegnato tanto. Per me quello che conta è dare sempre il 100%, cercando di non essere mai banali. Non ho un preciso modello di comunicazione, cerco semplicemente di essere sempre coerente e sfruttare tutti i canali al meglio. Secondo me è assurdo che alcuni blog di hb non siano su facebook: rispetto chi non ama questo mezzo di comunicazione, ma esserne fuori, ad oggi, preclude tante strade.

Quali sono i tuoi rapporti con il mondo della birra artigianale italiana?
F: In questi anni ho avuto la fortuna di conoscere da vicino alcuni birrai e di produrre un paio di birre su mia ricetta presso i loro impianti. Mi sono reso conto di quanto sia difficile gestire un birrificio in Italia in questi tempi e di quanto questo mondo sia complesso e duro. Quello che si vede in superficie è veramente la punta dell’iceberg, sotto c’è un mondo fatto di fatica, compromessi, leggi del mercato, vittorie e sconfitte. Ti rendi conto di quanto “fare il birraio” sia per noi homebrewers un concetto astratto, un sogno romantico, ben lontano dalla dura realtà dei fatti.

Dopo il successo del primo libro omonimo Brewing Bad pensi di bissare l’esperienza?
F: Chiamarlo libro mi sembra eccessivo. È una piccola raccolta di articoli del blog messi in bella copia. Vorrei comporre un secondo volume, ma ultimamente il tempo è veramente scarso. Magari in futuro, vedremo.

Quali sono i tuoi progetti per il futuro?
F: Sinceramente, non lo so. Con l’arrivo della piccola Emma si è generato un bellissimo cataclisma. Si sapeva, i bambini piccoli sono così: un turbine di emozioni positive che richiede tanto impegno pratico. Il mio sogno nel cassetto è di organizzare un evento per homebrewers in Italia sulla falsa riga della conferenza annuale della America American Homebrewers Association. Chiaramente non potrò mai farcela da solo, ma qualche primo contatto con chi vorrebbe unire le forze è partito. Vedremo.

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